Faceva freddo la sera del
27 novembre del 77. Dovevano esserci 6 gradi, non di più. All'epoca, sia pur laicamente, si festeggiava in casa San Massimo in quanto quella data - mi han sempre detto - corrispondeva al mio onomastico, e mamma - ricordo - mi faceva
trovare sempre la crema anche perché l'onomastico cadeva pure di domenica. Alle 16,30
ero tornato dal Tempio del Calcio, da quel Della Vittoria dove si
respirava iodio spinto dal maestrale misto al puzzo di piscio e
cemento grondante, invece, dai pilastri delle gradinate buie,
anticamera degli spalti luminosi da dove si potevan vedere le tenere
gesta di Florio Scarrone e Manzin che deliziavano le mie pupille
insieme a quelle dei miei amici coi quali raggiungevamo lo stadio,
naturalmente a piedi, con appuntamento rigorosamente sotto casa mia, alle 13.15, in quanto equidistante dallo stadio rispetto alle loro case. Anche
per digerire, insomma. e poi le partite cominciavan tutte, dalla serie A all'ultima Thule di categoria, alle 14,30.
C'era l'Ascoli di Mimmo
Renna, quello del miracoli, quello di Pasinato che correva come un
treno sulla fascia sinistra e che era pure un piacere vederlo
giocare, ed il Bari di Santececca, che aveva appena sostituito
Giacomino Losi, perse per 3-1 dopo aver subito per 90 minuti i
marchigiani dignitosamente. Ricordo che, nel dolore per la sconfitta, non ci rimasi,
poi, così tanto male tanto che, sportivamente, insieme ai miei
compagni di gradinata, applaudimmo gli ascolani perché, in effetti, giocarono
una grande partita e si meritarono tutto il nostro plauso nonostante
fossimo ultrà appena creati.
Tornato a casa, con la solita ed inevitabile mestizia tipica di una sconfitta subita intra moenia, ma ancora
ebbro di quella deliziosa crema e felice perché, in fondo, era pur sempre la mia festa,
decisi di terminare la traduzione di una versione di Plauto perché
il lunedì c'era latino e, indossato il mio giaccone a quadrettoni
rosso e nero che molti miei amici, tutt'oggi, ancora ricordano e a
cui ci tenevo tantissimo quasi come l'eskimo che, per l'occasione,
avevo preferito lasciare nel guardaroba, scesi perché avevo un appuntamento con la mia
ragazza per la consueta passeggiata più o meno romantica non prima di essermi visto Paolo Valenti e il suo struggente Novantesimo minuto.
Era appena morto Pierpaolo Pasolini, era anche il periodo in cui i
treni saltavano in aria, le Brigate Rosse ammazzavano uomini dello
stato, ma soprattutto era il periodo in cui le squadracce missine,
nell'eterna lotta contro i compagni comunisti, uscivano la sera per
esaltare la loro forza ferrata a suon di mazze, bastoni, coltelli e
soprattutto cazzotti producendo, talvolta, vittime anche in tal
senso.
E anch'io, se vogliamo,
pur non essendo iscritto ad alcun partito, partecipavo attivamente e
convintamente ai cortei studenteschi e alle lotte varie contro
Kossiga, sempre boia al pari di Vallitutti secondo il nostro modo
di vedere la politica d'antan, anche (e
soprattutto) perché vivevo sotto l'ombra del fratello maggiore il quale, a
quei tempi, oltre ad avere i capelli lunghi e crespi, portava Lotta Continua nella
tasca posteriore dei jeans e legava, come me, i libri ad una cinghia. Meno che il Pechenino, come noto, per non perderlo per strada date le sue ridotte dimensioni, lo si portava in tasca.
Ero già stato al
concerto degli Inti-Illimani al Petruzzelli, avevo già visto ascoltato Bocca di Rosa da De
Andrè e Salviamo il salvabile da Bennato al Palazzo, così come avevo sgranocchiato la Mela di Odessa assistendo al concerto
degli Area di Demetrio Stratos e - a proposito di mele - quello con La piccola mela di De Gregori, fischiato dal
loggione, e anticipato da uno sconosciuto Roberto Camerini, al
Supercinema in pieno Quartiere Libertà. Sicché avevo già imparato a memoria La Locomotiva,
Borghesia, Piccola Città e La Canzone di Piero tanto che le suonavo e cantavo finanche alla
chitarra riscuotendo persino un decoroso successo tra le compagne di
classe e di comitiva dell'Incis, ma soprattutto mi convincevo sempre
più che quell'area politica sarebbe stata mia. Per sempre. Anche
oggi, sebbene appena smussata. Mentre quell'angulus oraziano dell'Incis dove sbocciò il mio primo amore targato Katia con un braccio ingessato, ubicato su un muretto
recintato in Via Murat, rimaneva vuoto dai pensieri struggenti. Per sempre.
Francesca era uscita con
la sua amica, Federica, per la loro passeggiata pomeridiana domenicale volta a scambiarsi le loro tenere impressioni dei primi baci - forse anche
i secondi - dati e ricevuti dai primi ragazzi come era giusto che
fosse: io, invece, non vedevo l'ora di incontrarla. Francesca. Che
parecchi anni più in là, dopo qualche fisiologica interruzione,
sarebbe diventata la madre dei
miei figli.
Percorsi Via Marchese di
Montrone fino a Via Putignani alle 19 circa col mio giaccone rossonero a quadrettoni, e fu lì che le
incontrai. Federica, nel vedermi, sorrise col suo leopardiano
dispiacere nel dovermi "consegnare" la sua amica del cuore
con la quale aveva appena finito di parlare di compagni di scuola più
o meno "boni", dei cuoricini appena disegnati sul diario di Kendy, dei baci quasi catulliani sognati e, forse, già ricevuti, e di adolescenziali
paturnie varie.
Le mie spalle erano in
direzione Petruzzelli e, dunque, avevo lo sguardo in direzione della scuola
Garibaldi quando, d'un tratto, scorgo in lontananza come una mandria
macchiata di nero, già di per se in un'atmosfera parecchio buia, ed
anzi, quasi avvolta da una leggera nebbia che raramente fa capolino a
Bari, laggiù, tra gli alberi proverbiali di quella strada, una folla di persone che, in
modo incessante, ma senza correre, stava venendo dritto verso di me. Verso
di noi.
In un primo momento non
ci feci caso, pensai ad una possibile comitiva di amici, magari
appena uscita da una casa, ma fu un attimo. La paura si impadronì in un baleno di me. Realizzai subito, invece, che doveva trattarsi della
solita squadraccia missina barese, quella capeggiata da personaggi
famosi dall'occhio di vetro e non solo da lui, che scorrazzavano per la città in quel
tempo dopo aver espugnato Poggiofranco e dopo aver marcato il territorio con l'urina spruzzata dallo spray disegnando
un'aquila nera sopra i muri del Bar Esperia
in Via Principe Amedeo ma che, pure, al di là di qualche fisiologica
scazzottata, non si erano mai spinti. Già, mai spinti. Mentre
altrove, in Italia, avevano già ammazzato. E poi, all'epoca, mica ne ammazzavano uno al giorno...
Il gruppo era quasi vicino a me, forse all'angolo di Via De Rossi, quando d'un tratto urlai a Francesca di scappare via, magari dentro un portone, quello di Federica che, combinazione, abitava proprio lì. Così fu. Francesca e Federica riuscirono ad entrare nel portone, a chiuderlo, e salire verso piani alti, probabilmente entrando in casa sua, mentre io rimasi lì, impotente, immobile quasi cristallizzato dalla paura di fuggire consapevole che non l'avrei, comunque, fatta franca. Tremavo.
Mi accerchiarono, mi
chiamarono "Longo è giunta la tua ora, hai salutato la mamma?"
Non riuscii a trovare il
tempo per piangere, né per gridare aiuto - anzi un "aiuto" lo gridai istintivamente, ricordo - perché mi sentivo solo e certo
di non poter riuscire a fuggire. Li guardai in faccia: uno lo
riconobbi nonostante il passamontagna. Abitava sotto casa mia, in un
basso, e quando era in "borghese", ci scambiavamo
i "Topolino" e ci sorridevamo: anzi, ora che ricordo,
qualche volta siamo andati insieme persino allo stadio. Gli altri no, o
meglio, nonostante il passamontagna, non riuscii a riconoscerli a
differenza di Nicola. Non riconobbi nemmeno Pino Piccolo anche perché non sapevo chi fosse.
Mi distesi per terra
ancor prima di essere picchiato selvaggiamente, quasi come estrema
difesa, sperando che non mi avrebbero fatto tanto male.
Ho ancora qualche segno
dietro la spalla, fortunatamente ormai quasi scomparso, ma
soprattutto i segni ce li ho indelebili nella mente. Come quelli che lasciano gli aghi che entrano,
ciclicamente, nelle vene dei malati o dei monitorati a causa di malattie rare, vene squarciate da 10 anni tra prelievi, chemio momentaneamente lontane, liquidi di contrasto e liquidi radio maledettamente farmaci, e che ormai non provocano più dolore se
non nell'anima: e lì sì, credo, che facciano male. Molto male,
perché la puntura, per chi necessita di queste cure ed esami, si sentono solo lì adesso, non più nel proprio braccio
divenuto, ormai, uno scolapasta.
Nicola, il mio amico
"nemico" fascista, ad un ultimo disperato "per favore
smettetela" gridato da me dopo aver ascoltato il rumore sordo dei bastoni e delle mazze scaraventati sul mio corpo, e dopo aver, per fortuna, solo visto i pugni di
ferro e qualche coltello affilatissimo sbucare dalle tasche,
finalmente mi riconobbe e mi disse: "non sei, dunque, Antonio,
tu sei Massimo! Va bene, fermatevi, basta così! La lezione gli
servirà comunque a Massimo: così impara, anche lui, a frequentare i cortei del
liceo e ad essere comunista!". Dunque, anche io "me le meritavo". Bontà tua. Avrei voluto dire.
Mi guardò con tenerezza
carducciana, Nicola, sebbene fosse nascosto dal passamontagna, quasi
volesse scusarsi col sottoscritto per quel che aveva combinato, ma,
si sa, il vero fascista non chiede mai scusa. O quanto meno,
all'epoca, non era contemplato nel loro vocabolario. Oggi forse si.
Forse.
Tornai a casa con
Francesca che però accompagnai prima a casa sua, decisamente zoppicante e dolorante
e, per fortuna, solo appena sanguinante perché le botte le ebbi
sulla schiena e sulle gambe risparmiandomi la faccia e la testa
sebbene avessi visto coi miei occhi i coltelli. Non dissi nulla ai
miei che, ancor oggi, non sanno nulla, nemmeno babbo, oggi volato via
da qualche parte, ha mai saputo nulla.
Antonio non c'era a casa
quando entrai io. Andai in bagno simulando un improvviso dolor di
pancia e mi spogliai per vedere le ferite, poco sangue e molti lividi qua e là. Me le medicai alla meglio
e raggiunsi la mia stanza finché tornò mio fratello al quale,
però, gli raccontai tutto: "Guarda che ho preso mazzate dai fascisti", gli dissi. "Meno male come ti è andata - mi rispose con irritante, ma non per questo provata, freddezza - ma mamma
e babbo lo sanno? "No", gli risposi. "Non dirgli nulla", aggiunse.
E pensare che la mia mente, già provata per quella maledetta domenica, non era ancora devastata da ciò che mi sarebbe accaduto il giorno dopo. E di lì, fino ad oggi, colgo ancora tracce insondabili e palpitanti di un'angoscia stupefatta e bruciante.
All'epoca, quando si
commettevano certi assassinii, non ne seguivano mai altri in
successione. Magari si aspettava del tempo, mesi, forse un anno, per procedere al secondo assalto mirato ad uccidere in quanto,
normalmente, le squadracce missine tendevano solo a far paura magari con qualche scazzottata, nulla più.
Al mattino mi svegliai e
guardai attraverso i vetri osservando, impaurito e tremante, il
passaggio di tempo quando si spengono le luci della strada per far
posto a quella timida naturale color alba. Avevo paura, sentivo che
l'angoscia non sarebbe finita lì.
Quando lo ammazzarono,
Benny, vigliaccamente e bastardamente perché rimasto solo in quanto
poliomielitico, pensai che si sarebbe potuto salvare. Al suo posto
dovevo esserci io. Si, io. Nessun altro. Nemmeno mio fratello.
Ecco, mi son confrontato
nel tempo con la coscienza riconoscendomi fragile davanti a ciò,
sospeso nell'oscurantismo della memoria che da quel giorno, non riesco
ad abbandonare ogni qualvolta si ricorda in Piazza Prefettura Benedetto Petrone.
Ne è passato di tempo. La vita, che
scorre ormai come un fiume in piena, non sempre mi ha sorriso, anzi,
spesso mi ha irriso e tradito, però ruggisco ancora e sbuffo come
una Locomotiva gucciniana indomitamente anche se quel giaccone a
quadroni rosso e nero non ce l'ho più.
Insomma, ricordi tristi d'infanzia
sospesi sul quotidiano.
Ti aspetto domani in via Benedetto Petrone. Ciao Massimo e grazie. Nino
RispondiEliminaSono un po più giovane, ma quegli anni me li ricordo bene. Le tue parole me li rimettono ulteriormente a fuoco. Fuoco, infatti. Il fuoco della minaccia, della paura, ma anche la dignità e l'orgoglio di essere da un'altra parte. Non amo le celebrazioni, forse ci sarò oggi pomeriggio forse no. Sentire parlare oggi di antifascismo dai soliti soloni e non da quelli che stavano per la strada a prender mazzate non so se sia proprio la stessa cosa. Preferisco, di tanto in tanto, rileggermi "le due città", per non dimenticare il povero Benedetto, vittima della ferocia di anni confusi per chi tentava di difendersi, ma ben lucidi per chi aveva in testa un preciso disegno criminale.
RispondiEliminagrazie per i commenti
RispondiEliminaCaro Massimo, ieri nel corso della conferenza dibattito tenuta da Canfora, sei stato citato dal Prof Martino. Il tuo racconto é toccante e fondamentale, come le celebrazioni che si tengono ogni anno, perché la memoria va tramandata nella speranza che azioni del genere non si ripetano e che il livello cultura delle nostre due città possa un giorno migliorare.
RispondiEliminaGrazie